Simulacro dei Santi Martiri Alfio Filadelfo e Cirino
Storia dei Santi

Vita, Martirio e .....

La vita dei Santi Vasconi  Alfio Filadelfo e Cirino può essere definita una viva lezione, quasi uno specchio ove l’uomo può considerare e modellare sé stesso. Nell’anno 230, nella prefetta città di Vaste dalla famiglia di Vitale e Benedetta di Locuste, nasceva Alfio, un anno e otto mesi dopo Filadelfo e di lì a un anno Cirino. Al tempo il Papa era Urbano I e Imperatore di Roma Alessandro Severo.
I tre giovani, insieme al loro nipote Erasmo, la cui madre era passata a miglior vita, venivano ben presto istruiti alla fede nel Dio del nascente Cristianesimo dal maestro Onesimo  (Evodio), cittadino greco nato a Costantinopoli. Era egli sfuggito alla persecuzione contro i cristiani e giunto a Vaste, fu accolto in casa di Vitale.  Il maestro conosceva il greco e il latino, così i giovanetti poterono meditare le sacre Scritture ed imitarle con la loro vita illuminati dallo Spirito Santo.

Dio volle però, nei suoi altissimi disegni, provare la loro fede e il loro amore e la madre Benedetta, che ardeva dal desiderio di spargere il sangue per Gesù Cristo, quando vide compiuta l’educazione dei figlioli, si congedò da loro con tali parole: “Amati figli, avete voi ben conosciuto con quanta solerzia ho provveduto alla salute delle anime vostre, nell’insegnarvi a divenire voi veri servi del Signore… Egli vi benedica ed io a suo nome vi dono e vi lascio con quest’ultima ed eterna benedizione”; con simili parole Benedetta testimonia la sua fede. Si presentò, così, spontaneamente al Prefetto della città, rinfacciandogli apertamente la persecuzione dei cristiani in nome dei falsi dei. Rifiutando poi Ella di ritrattare quanto aveva detto e di offrire incenso alle false divinità, venne decapitata.
Così Iddio premiò con la palma del martirio Colei che aveva trascorso la sua vita santamente, nell’amore di Dio e del prossimo. Lo sposo Vitale e i teneri figlioli appresero la notizia con animo addolorato ma sereno e pienamente rassegnato al volere di Dio.
Vitale, illuminato com’era delle eterne verità, esortò i figlioli a tenersi sempre costanti nel professare la legge di Gesù Cristo, memori del martirio della santa Madre. E siccome presagiva prossimo per loro il momento della prova, soggiunse: “voi sapete figlioli quanto vi ho amato, ma preferirei vedervi morire martiri anziché privi della fede di Cristo. I vostri tormenti del resto sarebbero un nulla di fronte ai dolori sofferti da Gesù sul Calvario”.
Quando in seguito dovette separarsi da loro, nell’abbracciarli li chiamò fortunati per l’amore che portavano a Gesù Cristo e alla sua Croce.
Non potendo egli più tardi seguirli nel martirio, si ritirò nella solitudine del campo Pompeiano, oggi Valle di Pompei, con altri fervorosi cristiani. Ivi apprese in seguito la storia dolorosa del lungo martirio dei figlioli da Neofito, Vescovo di Lentini, che gli portò alcune reliquie ed in pace con Dio chiuse i santi giorni della sua vita. (Neofito, Vescovo di Lentini, è lo stesso Alessandro, primo consigliere di Tertullo, che fu convertito dalla costanza e dalla santità dei Tre Santi Fratelli, i quali gli avevano imposto di sfuggire al martirio, ritirandosi in una spelonca (adesso Grotta presso il Santuario di Santa Maria di Adonai nel territorio di Augusta), poiché il Signore aveva per Lui degli altri disegni).
La settima persecuzione contro i cristiani ordinata dall’imperatore Decio fu la più lunga e sanguinosa. Il Prefetto Nigellione ebbe l’incarico di fare eseguire l’editto dell’imperatore nella città di Vaste. Egli portò nell’esecuzione dell’editto tutta la forza brutale della sua volontà. I Tre Fratelli furono denunziati come cristiani; ma essi, animati dall’esempio eroico della madre Benedetta, dall’insegnamento di Gesù e sostenuti dalla Sua Grazia, attendevano con gioia l’ora della prova.
Ed ecco giungere in casa di Vitale i soldati di Nigellione che con modi violenti afferrarono Alfio Filadelfo e Cirino, il nipote Erasmo, l’apostolo Onesimo e tredici suoi discepoli.
Tra ingiurie di ogni sorta li trascinarono tra squilli di tromba per le vie della città. Nigellione si fece trovare di fronte a tutto il popolo, in trono, attorniato dai consiglieri, nel superbo apparato di ministro imperiale. Con tono di severità interrogò i prigionieri sulla religione che professavano.
Il maestro Onesimo rispose prontamente: “Noi tutti siamo cristiani e crediamo fermamente e adoriamo Dio Creatore dell’universo; quindi aborriamo con tutta la forza del nostro spirito di sacrificare ai demoni che sono le tue divinità”.
A tale deciso e coraggioso linguaggio Nigellione andò in collera, sia perché erano stati atrocemente offesi gli dei, sia perché ritiene disprezzato il suo potere. Diede allora ordine che fossero rotti a colpi di sasso i denti e le mascelle di Onesimo.
L’ordine venne immediatamente eseguito ed il santo Maestro, sopportò con eroica fermezza, senza alcun movimento, lo spasimo atroce che gli sformò e insanguinò orrendamente il volto.
Alla vista di tale supplizio Alfio Filadelfo e Cirino, anziché scoraggiarsi, senza attendere di essere interrogati, dissero con fermezza ad una voce: “Anche noi, ci gloriamo di essere cristiani”.
Nigellione vedendo che gli accusati, anziché sgomentarsi dopo il martirio del loro Maestro, professavano con maggior coraggio la loro fede, montò su tutte le furie e per dar sfogo alla sua vendetta, ordinò che fossero appesi alle forche per le chiome.
Acciuffati e legati fortemente per i capelli, rimasero penzoloni un giorno intero, soffrendo serenamente l’atroce martirio, lodando e benedicendo Dio.
Ma il preside, che ardeva in cuore di sdegno per tale fortezza d’animo, li fece chiudere in un’oscura prigione con i piedi serrati strettamente in ceppi di legno fino allo spuntare del nuovo giorno, mentre loro facevano risuonare la prigione di lodi ed inni di ringraziamento a Dio che rende soave con la sua grazia il soffrire.
Allo spuntar del giorno Nigellione, sperando che il supplizio avesse mutato la loro volontà, li chiamò dinanzi a sé:

-  Ebbene, disse, fingendo modi gentili, che cosa avete deciso?

-  “Nostro vivo desiderio è vivere eternamente con Cristo“, fu la risposta

-   E quale giovamento avete da questo?

-   “L’eterna felicissima beatitudine“

Nigellione, vedendo che le sue parole tornavano inutili, decise allora di inviarli a Roma con le mani legate dietro la schiena, fra una folla di manigoldi e tra mille insulti.
Ivi giunsero dopo alcuni giorni. Furono rinchiusi nel carcere Mamertino in un orribile prigione, con le mani e i piedi serrati in ceppi penosissimi. Questi erano costruiti in modo che i pazienti, stando rannicchiati, erano costretti a tenere la faccia all’insù; posizione dolorosa che non permetteva affatto di distendersi nella persona.
Durante così atroce martirio Onesimo non cessava di confortare i Discepoli, parlando delle gioie della eterna beatitudine promessa a coloro che resistono alla prova e riescono vincitori e li invitava a pregare.
Mentre tutti rispondevano con inni di lode al Signore, ecco ad un tratto quella prigione risplendere di viva luce, profumarsi di soavissimo odore e comparire i SS. Apostoli Pietro e Paolo. I ceppi si infrangono, i legami si sciolgono e i corpi dei Martiri divengono più sani e più vigorosi di prima. Vengono poi confortati dalle parole dei SS. Apostoli, i quali predicono loro i supplizi che avrebbero dovuto sostenere.
Scomparsa la visione, il carcere risuonò di preci di riconoscenza e di cantici di letizia al Signore e per sette giorni i Tre fratelli dimorarono in quel carcere tutti ripieni di forza celestiale.
Valeriano, che a Roma faceva le veci di Decio, impegnato nella guerra d’Oriente contro i Persiani, li volle al suo cospetto. Si fece trovare sul seggio imperiale attorniato da ministri e soldati in armi per incutere, a suo giudizio, maggior terrore.
Ma egli aveva da fare con giovani ripieni di Spirito Santo, i quali non temevano né l’apparato della sua corte, né il suo sguardo truce, né le sue minacce.
Essi dissero pertanto con linguaggio ispirato:
Noi restiamo meravigliati come voi che avete senno, non vi accorgete della menzogna e turpitudine dei vostri idoli e non professate la Religione cristiana, a cui noi rendiamo testimonianza col sangue“.
Valeriano passa allora alle minacce, alle lusinghe, alle carezze; ma tornando inutile ogni tentativo, vedendoli irremovibili nella Fede, ordina che siano percossi con nervi di cuoio come si usava allora con i più vili schiavi.
Affidati a feroci canaglie, una tempesta di colpi si rovesciò su quelle candide membra, con tale violenza che le carni divennero subito livide, tumefatte e lacere ed il sangue stillava e sgorgava da ogni parte. Sembrava che dovessero spirare sotto quel tormento, ma la loro costanza li sosteneva e glorificavano il nome di Dio, incoraggiandosi a vicenda nelle promesse dell’eterna beatitudine.
Valeriano assillato dalle cure dell’impero, non essendo riuscito nel suo intento di far prevaricare i Confessori di Cristo, volendo disfarsi di Onesimo e dei Compagni e conservare in vita i Tre nobili figli di Vitale per il bene dell’impero, li inviò tutti a Pozzuoli con una lettera al Preside Diomede, uomo molto astuto e feroce. In cinque giorni, viaggiando per mare, giunsero a Pozzuoli.
Diomede gioì dell’incombenza avuta per iscritto, bramoso di entrare sempre più nelle grazie dell’imperatore. Appena giunti i diciotto cristiani, li fece subito imprigionare e dopo tre giorni li chiamò dinanzi a sè.
Anzitutto mosse i più aspri rimproveri ad Onesimo, che rinnegando gli dei dell’imperatore, si era fatto maestro di insane dottrine, riuscendo a sedurre così nobili giovani. Onesimo rispose: “La seduzione e l’inganno sono stati sempre aborriti dai Confessori di Colui che non può ingannare, né essere ingannato“.
Accortosi Diomede che né lusinghe né minacce valevano a distogliere quei cristiani dalla loro fede, ordinò che venisse ucciso Onesimo affinché, tolto lui di mezzo, più facilmente gli altri potessero indursi a rinnegare la loro Fede.
Disteso Onesimo per terra, i carnefici gli fecero cadere dall’alto un enorme masso, che gli stritolò le carni e le ossa. Nell’invincibile amore di Cristo spirò la sua anima.
I discepoli di Onesimo anziché scoraggiarsi per la morte del maestro, si animarono ancora a soffrire del desiderio di unirsi eternamente con Dio. Modi persuasivi e minacce furono tentati da Diomede per indurre i Confessori di Cristo a bruciare l’incenso alle divinità dell’impero, ma tutto tornò inutile.
Perduta quindi ogni speranza di riuscita, il perfido tiranno proferì, con tono infernale, la sentenza di pena capitale per tutti, all'infuori di Alfio Filadelfo e Cirino, secondo gli ordini ricevuti da Valeriano. Questi infatti aveva pensato che, data la nobiltà del loro casato, potevano essere di molto giovamento agli interessi dell’impero:
La sentenza pertanto fu eseguita in un’ampia pianura presso la città, alla presenza di numeroso popolo.  
I tredici Eroi si mostrarono degni del maestro Onesimo, morendo con la lode di Dio sulle labbra. Erasmo fu riservato per ultimo, sperando il tiranno che rimanesse intimorito e adorasse gli dei. Ma, resistendo egli fermo nella Fede, ebbe pure mozzo il capo, dimostrando così quanto forte sia un cuore posseduto dalla virtù dell’Altissimo.
Dei diciotto cristiani rimasero solo i figli di Vitale. Diomede tentò ogni mezzo per guadagnarli all’idolatria. Li fece condurre alla sua presenza e usò i modi più gentili che l’astuzia gli suggeriva per farli apostatare.
La nobiltà della stirpe, la bellezza, l’ingegno, gli onori di corte e l’amicizia dello stesso Decio furono gli argomenti con tanta insistenza e fine insinuazione adoperati perché cedessero. Ma Alfio Filadelfo e Cirino sapevano che tutte le gioie e le grandezze del mondo si dileguano presto e sono un nulla al confronto del gaudio celeste.
Il Preside allora, con atteggiamenti di tenerezza si mise a descrivere gli atroci tormenti a cui andavano incontro in Sicilia per ordine di Valeriano; ma i Tre Fratelli sapevano che era necessario bere il calice amaro di Gesù Cristo per avere parte del suo regno.
Diomede, accorgendosi che andava fallita ogni speranza di poterli tirare al suo partito, arse di sdegno e per procurarsi uno sfogo, ordinò che a colpi di sasso fossero straziate quelle bocche da dove erano uscite parole così ingiuriose ai Numi dell’impero. “Ebbene, risposero Essi con lieto animo, facendo straziare il nostro corpo, farai male al nostro nemico già condannato a corruzione; ma né umano furore, né tormento di morte, potranno mai toccare l'anima nostra“.
Spietati carnefici diedero subito esecuzione alla sentenza e quelle labbra così adorne di grazia, quelle tenere gengive e quei denti di candido avorio furono subito laceri e rotti.
Così pesti in volto e grondanti sangue, mettevano pietà e destavano orrore a guardarli. Furono quindi buttati in un’orrenda prigione, così stretta e scura da somigliare ad un sepolcro, con i piedi serrati nei fori stretti di pesantissimi ceppi.
In tale tormentosa posizione dimorarono otto giorni benedicendo Iddio di ogni consolazione.
Quindi sotto la custodia di cinquanta soldati con a capo un certo Silvano, uomo di molta ferocia, furono condotti su una nave in Sicilia per essere presentati con una lettera di accompagnamento al Preside Tertullo. Dopo tre giorni di viaggio giunsero a Messina.
Avendo Silvano saputo che Tertullo si era recato a Taormina, vi mandò i Tre Fratelli, obbligandoli a camminare scalzi. Ivi giunto col suo drappello, consegnò a Tertullo la lettera di Valeriano. Era Tertullo uomo di ingegno sottile, ma feroce di cuore e di una scaltrezza senza pari. Grande era la sua superstizione ed idolatria che lo rese famoso in tutto l’impero per la strage dei cristiani. Fingendosi egli pieno di tenero affetto, andò incontro ai Tre Fratelli, li abbracciò e fece sciogliere le loro catene. Rimproverò quindi i soldati che non avevano avuto compassione di loro e, fattali sedere a sé vicino, volle banchettare insieme, adoperando le carezze, le promesse e i modi più lusinghieri per distoglierli dalla Fede.
Ma essi con la mente fissa a Dio ripetevano: “Come fumo si dilegueranno quei che abbondano nel secolo, né rimarrà loro memoria alcuna delle passate delizie: le promesse e la gloria di Gesù Cristo sono le sole che dureranno in eterno“.
Tertullo, vedendo che non riusciva a nulla ogni sua arte, mosso da grande furore, ricorse ai tormenti. Fece tagliare ai Giovanetti i lunghi e biondi capelli. Quindi fece versare su quei volti angelici e sui loro petti pece bollente, onde così deformati, divenissero, a suo modo di pensare, oggetto di raccapriccio e di maledizione. Molti però nel guardarli ne provarono compassione.
Quale strazio produsse ai Giovanetti così atroce Martirio! Ma essi avevano in mente le parole di Gesù: “Non si devono temere coloro che uccidono il corpo e non possono far male allo spirito“.
Dovendo Tertullo assentarsi da Taormina, ordinò che i Tre Fratelli fossero portati a Lentini, città di sua dimora, ed ivi rimanessero in carcere fino al suo ritorno. Ma altro crudele martirio dovettero subire i nostri giovani Eroi.
Tertullo ordinò che fosse caricato sulle loro spalle un enorme trave e così, gravati del pesantissimo legno, col volto bruciato dalla pece, dovettero mettersi in cammino a piedi scalzi verso Lentini.
Li seguivano quaranta soldati a cavallo con a capo Mercurio, uomo di cuore così duro che, anziché aver pietà per i teneri giovanetti, con ingiurie e percosse li costringeva a camminare a passo svelto senza concedere loro alcun riposo, cibo o bevanda. Era un miracolo che non cadessero sfiniti. Ma l’amore di Dio che ardeva nei loro petti dava loro forza e costanza.
Giunti che furono presso Mascali, sulla collina dove ora sorge il comune di Sant’Alfio di Giarre, nella parte orientale dell’Etna, Iddio permise che Filadelfo, il più gracile dei Fratelli, sentisse venir meno le forze da non poter più fare un passo, nonostante il suo desiderio di andare innanzi. Si rivolse allora ai Fratelli perché pregassero con Lui il Signore di concedergli vita e forza. Alfio e Cirino unirono la loro calda preghiera: “Tu, o Signore che sei spirito e vita, infondici forza e costanza! Da te abbandonati siamo deboli e infermi: ma se Tu volgi su noi lo sguardo, saremo ripieni di fortezza e vigore del camminare verso Te che ci hai preceduto nella via delle pene e dei dolori, e i tuoi nemici saranno confusi e avviliti“.
Ecco improvvisamente un meraviglioso splendore circonda i Tre Fratelli. Il cielo, che era stato fino allora sereno, d’un tratto si copre di dense tenebre, rotte da lampi. Si ode il turbinare dei venti ed il rumoreggiare dei tuoni. I cavalli s’impennano ed i soldati stramazzano a terra.  Ed ecco un vento impetuoso strappare di dosso ai fratelli il pesante trave e lanciarlo in mare.
Un uomo di aspetto venerando appare. Egli accarezza e conforta con amore i Tre Giovanetti, mentre il sereno riappare nel Cielo ed il sole torna a risplendere.
Quell’uomo era l’Apostolo Sant’Andrea, loro speciale protettore.
I soldati ancora a terra come tramortiti, non credevano ai propri occhi nel guardare i Giovani Fratelli che avevano acquistato la bellezza di prima: nessuna traccia più della pece che sfigurava i loro volti; erano scomparse le piaghe e cresciute di nuovo le bionde chiome.
I soldati riacquistate le forze, si levarono da terra rendendo lode a Dio e confessarono la sua grandezza; mentre da quel momento trattarono i tre Giovanetti con modi più miti e accettarono di essere da loro evangelizzati.
Intanto i Tre Fratelli sciolsero a Dio l’inno di ringraziamento nel sommo gaudio del loro cuore e s’incamminarono quindi per la via della montagna per andare a Catania e quindi a Lentini perché la strada lungo la marina era ingombra dalla recente lava dell’Etna.
Giunti a Trecastagni, si riposarono sul luogo ove ora sorge il Santuario in loro onore (Il nome Trecastagni sembra derivare da Tres - Casti - Agni = Tre Casti Agnelli : I Tre Santi Martiri). Il sito contornato da monti, da colline e campi ubertosi, quasi protetti e vigilati dal gigantesco Mongibello, e l’aria purissima che vi respirarono, il cibo che fu loro apprestato dai soldati ed il gran prodigio celeste che aveva loro dato vita, forza e bellezza, sollevarono il loro animo alla bontà, alla misericordia di Dio e cantarono con giubilo le loro lodi.
Riposati e rifocillati a Trecastagni, i Tre Fratelli seguiti dai soldati, ripresero il cammino verso Catania (Catania è
la Patria di Sant’Agata che ha subito il martirio un anno prima del passaggio dei Santi Fratelli, sotto il Preside Quinziano a cui successe Tertullo) dove fin dal tramonto furono custoditi tutta la notte in una prigione e che trascorsero quel tempo in continua orazione e contemplazione delle cose celesti. (Il sotterraneo dove furono incarcerati a Catania i Tre Fratelli esiste ancora sotto la chiesa della Concezione detta pure dei Minoritelli, essendo appartenuta ai chierici Minori o Minoritelli. Al sotterraneo si accede di fianco all’altare dedicato ai Tre SS. Martiri).
Ripreso all’alba il viaggio, giunsero al fiume Simeto che era in piena, ingrossato dalle recenti piogge e non poteva essere traghettato. Otto di quei soldati costrinsero i Tre Fratelli a guadare il fiume e li spinsero dentro l’acqua con ingiurie. Ma i Tre Giovanetti elevarono fervente preghiera al Signore perché li liberasse dal pericolo e le acque ritiratesi, lasciarono loro libero il passaggio.
Gli otto soldati visto il prodigio, vollero anch’essi entrare nel fiume, ma le acque risollevatesi di nuovo, li travolsero e rimasero affogati coi loro cavalli. Gli altri trentadue soldati non osarono guadare il fiume e rimasero in attesa quattro giorni. Il quarto giorno le acque erano diminuite e poterono passare all’altra riva, ove i Tre Fratelli erano stati in attesa, impiegando il tempo in preghiera, in santa vicendevole conversazione e in unione con Dio.
Si rimisero in viaggio. A poca distanza da Lentini avvenne un gran prodigio: Un giovane ebreo posseduto dal demonio che lo vessava in mille modi, fu liberato miracolosamente per le preghiere dei Giovanetti. Il padre e la madre del giovane anch’essi ebrei si convertirono e venti dei trentadue soldati confessarono apertamente la verità della Religione cristiana.
Giunti a Lentini i Tre Fratelli furono oggetto di ammirazione non solo per la nobiltà del loro casato, ma più ancora per la fama manifestatasi poco prima nella liberazione dell’indemoniato.
Viveva a Lentini una nobildonna di nome Tecla, figlia della martire Isidora e imparentata con Alessandro, vicario di Tertullo.
Cristiana esemplare non pensava che a compiere opere buone e a distribuire le sue ricchezze ai poveri; confortava i cristiani e provvedeva ai loro bisogni, edificava Chiese in onore dei Martiri Lentinesi. Costei giaceva in un letto da sei anni, paralitica di tutte le membra. Alle preghiere dei Tre Fratelli si levò all’istante perfettamente guarita.
Ritornato a Lentini, Tertullo montò su tutte le furie nel sentire che venti dei soldati con a capo Mercurio si erano convertiti professando pubblicamente la fede. Ordinò quindi che, privati delle insegne militari, fossero legati, sospesi in alto e flagellati a lungo spietatamente con bastoni di palma. L’ordine venne barbaramente eseguito. Tertullo quindi, dopo aver fatto inutili tentativi per vincere la loro costanza, vomitando ingiurie e bestemmie, li condannò alla decapitazione.
Volarono così al Cielo quei Prodi a ricevere
la Corona di gloria. (Tecla fece poi seppellire degnamente i venti corpi dei Confessori della Fede. Epifania, che era stata moglie di Alessandro, fu fatta straziare barbaramente da Tertullo e morì Martire della fede). Morti che furono i venti soldati, Tertullo si propose di adoperare tutte le arti della sua astuzia per indurre i Tre Giovani ad adorare gli idoli. Li fece pertanto condurre alla sua presenza e nel vederli così sani, coraggiosi, adorni delle bionde chiome, prima deformate con pece bollente, rimase assai stupito. Attribuendo il fatto ad arte magica, dando in forti smanie, comandò che fossero rimessi in prigione.
Trascorsi dieci giorni, ordinò che fossero trascinati per i capelli al suo cospetto; ma vedendo che tornavano inutili le sue parole di persuasione, con furore sentenziò che fossero sottoposti alla flagellazione più crudele che era in uso. I Tre Giovani furono legati ciascuno ad una colonna. Dodici robusti uomini, distribuendosi quattro per ogni fratello, si misero a sferzare con bastoni di palma quei teneri corpi che presto divennero lividi e laceri, mentre si aggiungeva piaga a piaga ed il sangue stillava da ogni parte.
Nonostante la fortezza d’animo i Tre Eroi di Cristo, pareva dovessero da un momento all’altro cadere sfiniti; ma, all’improvviso, le braccia di quegli omaccioni furono colte da paralisi, caddero loro di mano i flagelli e restarono come pietrificati.
A tale spettacolo molti degli astanti credettero in Gesù Cristo. Ma lo sciagurato Tertullo, col cuore arroventato dal livore, ordinò che fossero ricondotti in carcere ed ivi venissero sottoposti ad altro crudele martirio. Due pesantissimi travi furono posti e legati fortemente, uno sui piedi e l’altro sul collo dei Tre Fratelli, costretti a stare in quella posizione con le piaghe ancora sanguinanti. Essi invece di abbattersi lodavano Iddio che non lascia di consolare i suoi eletti anche tra i tormenti. In questa come in altre occasioni furono visitati in carcere da Tecla che ne curò le piaghe con amore materno.
Ma il demonio non tralasciò di tentarli nella fede, prendendo forma umana e apparendo loro nel carcere. I Tre Fratelli resistettero alle ingannevoli sue parole e, riconosciutolo per il nemico infernale gli intimarono di ritornare negli eterni abissi; e così lo spirito del male disparve per sempre dalla loro presenza.
Il crudele tiranno tentò ancora tutti i mezzi per strappare
la Fede di Cristo dall’anima dei pii Giovanetti. Ma riuscito vano ogni tentativo, ricorse ai tormenti più atroci. Fece appositamente costruire dodici uncini di ferro a guisa di rastrelli, ai quali vennero fissati acutissimi aghi, e con questi fece torturare i corpi dei giovanetti. Ma gli invitti campioni, tenendo lo sguardo al Cielo, elevavano a Dio il loro spirito. Tertullo poi li fece rinchiudere in prigione.
Mentre lodavano il Signore, Dio della fortezza, apparve loro, raggiante di luce, l’Apostolo S. Andrea che, con celestiale linguaggio, li incoraggiava.
Egli toccò i loro corpi che subito furono perfettamente risanati. Scomparve quindi il Santo e i Tre Fratelli, in un’atmosfera di Paradiso, restarono uniti a Dio in dolcissima estasi.
Tertullo pensava che dopo un martirio così atroce, in breve tempo sarebbero morti e, volendo informarsene, l’indomani mandò un soldato nella prigione.
Egli rimase sbalordito nel sapere i Tre Giovanetti sani e floridi; li volle subito alla sua presenza. Nel vederli fu tale il suo stupore che non poté, per alcuni istanti, proferir parola. Poi disse loro che gli dei avendo compassione della loro giovane età e bellezza, avevano loro ridonato la sanità e che per questo conveniva di esser loro riconoscenti e adorarli.
I Santi Fratelli risposero con fermezza, rinfacciandogli la sua cecità nel credere agli dei falsi e bugiardi, mentre gli additarono la bontà di Dio che li aveva risanati.
Tertullo allora, in un eccesso di collera, ordinò un nuovo tormento; fece costruire tre paia di calzari di ferro con le suole irte di chiodi che sporgevano dentro, li fece arroventare e i piedi dei Tre Giovani Fratelli vi furono incassati con violenza mediante strumenti di ferro.
Fu tale l’acerbità delle trafitture dei chiodi e delle scottature che stentarono assai a camminare. Filadelfo poté proseguire solo mediante le preghiere di Alfio e Cirino che impetrarono da Dio la forza per resistere al nuovo supplizio. Ma, ecco un meraviglioso splendore attorniare i Tre Fratelli e da quel momento camminarono spediti come se non sentissero alcun dolore; lasciando indietro i soldati che li seguivano.
Ricondotti dinanzi a Tertullo si mostrarono ancor belli e vigorosi; egli ne rimase fortemente turbato. Comandò pertanto che fossero condannati ad un rigoroso digiuno per un tempo indeterminato, finché, o incensassero agli idoli, o morissero di fame e di sete. Fece perciò serrare e sigillare le porte della prigione, affinché nessuno potesse loro porgere briciola di pane, né goccia d’acqua. Rimasero in carcere tre giorni interi, senza prendere alcun cibo o bevanda, lodando e benedicendo Iddio.
Ma ecco nella notte, in uno splendore di paradiso, comparve il Santo Apostolo Andrea, di cui erano tanto devoti, portando tre pani ed un vasetto d’acqua, cibo e bevanda celesti, con i quali rimasero confortati, uniti più strettamente a Dio. Essi adorarono prostrati la divina Bontà e Provvidenza. Il Santo Apostolo li abbracciò, li benedisse, assicurandogli che era prossimo per loro l’inizio dell’eterno Gaudio.
Alessandro, primo consigliere di Tertullo, molto istruito nella filosofia e nelle scienze, a cui era stata affidata la responsabilità della strettissima custodia in carcere dei Tre Fratelli osservando dallo spiraglio della segreta assistette all’apparizione dell’Apostolo S. Andrea e lo udì parlare. Rimase convinto che il Dio dei cristiani è il vero Dio e credette in Lui.
Egli domandò perdono ai Giovanetti dei tormenti fatti loro subire per ordine di Tertullo. Rinfacciò al Preside il male fatto, professandosi apertamente cristiano e, abbandonata la corte, fuggì nella solitudine. Ricevette il Santo Battesimo e condusse vita di penitenza.
(In seguito, come è stato detto in precedenza, fu consacrato Vescovo di Lentini col nome di Neofito).
Trascorsi dieci giorni da quando i Tre Fratelli si trovavano rinchiusi in carcere, Tertullo mandò un messo a vedere cosa era avvenuto di loro.
Avendo saputo che erano ancora vivi rimase assai meravigliato. Li fece trascinare per i capelli dinanzi a sé e nel rivederli ancor sani e floridi stette a guardarli a lungo. Quindi assalito da furore infernale, aspramente li rimproverò per aver tirato Alessandro alla loro fede, il quale, a suo dire, li avrebbe nutriti nascostamente in carcere. Con rabbia li chiamò seguaci di un impostore e caparbi disprezzatori degli dei. Ma i Tre Giovani gli rinfacciarono l’esecrante bestemmia, elogiando la santità, la potenza, la bontà e la divinità di nostro Signore Gesù Cristo.
Tertullo, a simile linguaggio, ammutolì, ma il furore satanico lo indusse ad escogitare nuovi tormenti. Furono condannati ancora una volta alla flagellazione con nervi di cuoio.
Le teneri carni dei Tre Giovanetti furono straziate con maggior ferocia. Vedendo che nulla era valso quest’altro martirio per indurli a sacrificare agli dei, il tiranno ne preparò un altro.
Fece liquefare grande quantità di pece e di bitume; quando tale orribile mistura divenne bollente, ordinò che fosse rovesciata sui loro corpi distesi per terra l’uno presso l’altro. I Tre Fratelli pregarono ad alta voce il buon Dio, perché desse loro la forza di sopportare il nuovo martirio e non appena cominciarono a rovesciare da un alto muro il liquido mortale, ecco soffiare un vento gelido che lo raffredda, cosicché non ne furono toccate affatto le membra.
Ma Tertullo mostrò di non essere affatto commosso da questo prodigio, anzi tanto ferocemente incrudelì, che escogitò un altro tormento. Furono pertanto legati ad alti pali, penzoloni, con la testa in giù. Fu acceso sotto un gran fuoco e alimentato con puzzolenti combustibili. Il fumo nero e l’orribile puzzo saliva ininterrottamente alle loro narici.
Lungo tempo dimorarono in tale tormentosa posizione i Confessori di Cristo, senza restarne asfissiati, benedicendo Dio e lodando le sue misericordie.
Tertullo, nel vedere tanto coraggio, ruggiva dalla rabbia quale leone inferocito e non sapeva più cosa fare per sfogare la sua bile su quei mansueti Agnelli. Dispose che fossero tolti da quella posizione e come aveva fatto a Taormina, ordinò che fossero rase loro le leggiadre chiome. Quindi fece versare sulle loro teste e sui loro corpi pece bollente, sicché rimasero tutti bruciati ed anneriti da sembrare dei mostri. Legato un enorme trave sulle loro spalle, furono costretti a camminare per le vie di Lentini, preceduti da strilloni che suonavano le trombe e gridavano: “Così saranno puniti coloro che negano di sacrificare ai nostri dei”.
I Giovani Fratelli intanto, come fiori profumati, spargevano intorno celeste soavità di grazia; ed avvenne che molti, tra l’immensa folla che correva da ogni parte, piangevano al passaggio dei Tre Fratelli e si convertivano alla Religione cristiana. Alcuni li pregavano perché impetrassero loro la grazia di sostenere anch’essi il martirio per 
la Fede.
La maggior parte dei convertiti erano ebrei, fra i quali figuravano il padre e la madre del giovane liberato dal demonio.
Il Preside volle sbarazzarsi subito di essi, affidandone la vendetta ad altri ebrei e i nuovi seguaci di Cristo morirono tutti sotto una terribile grandinata di sassi.
I Tre Giovani intanto furono ricondotti così com’erano in carcere.
All’improvviso dinanzi agli occhi dei custodi, scioltisi i legami, cadde loro dal collo il pesante trave; i loro volti riacquistarono la primiera bellezza e riebbero i loro biondi capelli. Così si avverò in Essi, per la seconda volta, la promessa di Gesù Cristo: “Nessun capello perirà dal vostro capo senza il mio volere …”.
Nel rivederli così sani e vegeti il feroce Tertullo si diede ad imprecare e bestemmiare, ordinando infine per i Tre Prodi una terribile carneficina.
Gettati per terra con mani e piedi legati, furono dai manigoldi trascinati per le vie più sassose della città così ferocemente che le loro membra si scorticavano, si rompevano, restandone brani sulle pietre. Rivoltati dall’altro lato furono allo stesso modo trascinati e lacerati fino a rimanere scoperte le ossa. La folla, intanto, commossa, piangeva e pregava Iddio per Loro. Quello strazio durò a lungo; infine così malconci e sanguinanti, furono riportati in prigione.
Tecla e Giustina sua congiunta, riuscirono, donando denaro alle guardie, a penetrare nel carcere con unguenti e panni per medicare le loro piaghe; nel vederli così mal ridotti piansero amaramente. Ma gli invitti Campioni di Cristo non permisero che fossero medicati, dicendo che erano assistiti da un medico celeste, il quale poteva istantaneamente guarirli. Pregarono quindi le pie donne di distribuire ai poveri i panni e gli unguenti che avevano portato.
Giustina era da tempo cieca di un occhio e per l’intercessione dei Tre Fratelli, recuperò immediatamente la vista. Una serva di Giustina aveva una mano inerte, completamente paralizzata; alle preghiere dei Tre Fratelli, rimase perfettamente guarita.
Tertullo dispera ormai di poter ridurre al suo volere i Tre Fratelli, egli si avvede che, mantenendoli ancora in vita, cresce di giorno in giorno il numero dei cristiani e stabilisce che il 10 Maggio si ponga fine alla loro vita. Condanna Alfio ad avere strappata la lingua, Filadelfo a morire su una graticola ardente e Cirino in una caldaia di piombo e pece bollente.
Tutto fu disposto nella pianura presso il fiume Lisso, dove erano destinati i pubblici spettacoli. Il Preside volle intervenire personalmente, seduto su un alto seggio, attorniato dai suoi ministri e dai nobili della città. La gran piazza era gremita di popolo, i soldati schierati ed il vessillo dell’impero Romano sventolava in alto. Quando comparvero i Tre Giovanetti, belli come Angeli, trascinati da feroci manigoldi, fu un bisbiglio generale di commozione e di pietà.  
Tertullo, ignorando la forza irresistibile dello Spirito Santo di cui erano pervasi gli animi dei Tre Fratelli, sperava ancora stoltamente di piegare la loro volontà: “Ecco, disse, additando loro lo spaventoso apparato di morte, dove andrà a finire la vostra vita se non sacrificherete agli dei dell’Impero”. I Tre Giovani, irradiati di luce celeste, con fermezza risposero: “In nessun modo e con nessun tormento potrai separarci dalla Fede e dall’amore a Gesù Cristo”.
Tertullo, pieno di livore, non seppe rispondere se non col fare eseguire la sentenza. Il segnale viene dato: squilla la tromba della morte. Ed ecco i carnefici avventarsi su Alfio, legarlo strettamente ad un palo e dar piglio alla tenaglia e agli uncini.
Alfio in questo momento di attesa, ripieno dello Spirito Santo, parla con tal sublime linguaggio da guadagnare alla Fede del Vangelo un gran numero di gente. Fra l’altro egli dice: “Sebbene mi si stia per strappare lo strumento della parola, Iddio che scruta l’intimo del cuore sentirà bene la prece di chi non favella e la mia lingua divelta farà ancora sentire nell’intimo del cuore di questo popolo, l’eterna Verità per la quale io muoio”.
Appena proferite queste parole i carnefici, come cani rabbiosi, gli aprono la bocca, gli attanagliano la lingua, vi conficcano profondamente gli uncini e con forza la strappano fin dalle radici. Sollevata quindi come un trionfo la mostrano al popolo, poi con violenza la gettano a terra. Un profluvio di sangue sgorga da quella soave bocca e l’invitto eroe, con gli occhi rivolti al Cielo, sfavillanti di luce angelica, dopo lunga agonia, esala l’ultimo respiro, volando all’amplesso di Dio all’età di 22 anni e 7 mesi.
La morte di Alfio non fa che aumentare la fermezza e la serenità degli altri due Fratelli; perciò Tertullo ordina il martirio già preparato per Filadelfo.
Come iene feroci gli aguzzini si avventano su di lui e lo stramazzano sulla graticola, arroventata da un gran fuoco. Ma il fuoco sovrumano del Divino Spirito che avvampa nel giovane petto è assai più potente di quello che ne brucia il corpo e, finché gli occhi gli servono, li tiene fissi al Cielo assorto in celeste visione. Egli spira nel bacio del Signore all’età di 21 anni con queste parole sulle labbra: “Signor mio Gesù Cristo, ecco nelle Tue mani il mio spirito”.
La caldaia intanto, piena di pece e bitume, bolle sul fuoco spandendo un fumo acre all’intorno. Il preside cerca ancora argomenti per indurre Cirino ad offrire incenso agli dei, ed è entrata in lui e negli astanti fiducia che possa essere indotto dallo spavento per la straziante morte dei Fratelli. Ma Cirino col cuore infiammato dalla grazia dello Spirito Santo non ha orecchio che per ascoltare armonie di Paradiso.
Spinto da forza sovrumana, interrompe il favellare insano del tiranno e va a tuffarsi nella caldaia bollente. Col nome di Dio sulle labbra, vola al Cielo ad unire la sua voce a quella del calvario degli
Angeli e dei Fratelli nel Regno dell’eterna gioia all’età di 19 anni e 8 mesi.

 Il 10 Maggio del 253 viene a chiudersi così la sublime epopea del calvario dei Santi Fratelli Alfio Filadelfo e Cirino.

Su ordine di Tertullo i loro corpi, martirizzati e privi di vita, furono legati con funi, trascinati in una foresta e gettati in un pozzo vicino alla casa di Tecla, che nella notte tra il 10 e l'11 Maggio, accompagnata dalla cugina Giustina, estrasse i corpi dando loro una degna sepoltura, sfruttando una piccola grotta esistente ancora oggi nella Chiesa di Sant'Alfio a Lentini.

Autore: lame

Pubblicato: 2016-06-24 18:01:56

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